“IL TEMPO DI CARAVAGGIO”-MUSEI CAPITOLINI

Testo di Fulvia D’Ambrosi, Storica dell’Arte

https://it.wikipedia.org/wiki/Ragazzo_morso_da_un_ramarro#/media/File:Michelangelo_Caravaggio_061.jpg

La mostra “Il Tempo di Caravaggio” a Roma presso i Musei Capitolini presenta al pubblico i capolavori della collezione di Roberto Longhi, in un percorso che si snoda dalle opere fonti d’ ispirazione per il grande Maestro lombardo e prosegue nella conoscenza della “cerchia” caravaggesca che tanto ha contribuito alla diffusione della pittura del Merisi.
Roberto Longhi (1890-1970), storico e collezionista d’arte, si impegnò fin dagli studi universitari a riscoprire l’opera di Caravaggio, che considerava il padre dell’arte moderna, l’antenato di artisti da Rubens a Courbet, passando per Velazquez e Goya. Eppure fino alla riscoperta di Roberto Longhi, il pittore era “uno dei meno conosciuti dell’arte italiana”. Le ragioni del silenzio pesato per più di due secoli affondano le radici in un secolo, il Seicento, gravato dall’oppressione politica e dalla Chiesa controriformata. Caravaggio rappresentò la decadenza morale e storica dell’Italia e restò impigliato nel giudizio negativo su quell’epoca. Infatti Napoleone, nella sua celebre collezione di arte italiana, non incluse Caravaggio e Goethe, dal canto suo, non menzionò l’artista nel “Viaggio in Italia “. Nella mostra è presente uno dei capolavori di Caravaggio, il “Ragazzo morso da un ramarro”, datato al 1597 circa, poco dopo la sua venuta a Roma. Qui, il giovane artista lavorò nella bottega del Cavalier d’Arpino per il quale eseguì raffigurazioni di fiori e frutta: opere di un genere ritenuto minore ma richiesto dal mercato, praticato soprattutto dai fiamminghi. A questo periodo appartengono le composizioni di mezze figure accanto a nature morte alludenti alla caducità della vita, allo sfiorire della giovinezza o al disinganno. In particolare, nel Ragazzo morso da un ramarro Caravaggio conduce l’attenzione dello spettatore dalla minuziosa descrizione dei particolari nella natura morta -come in molti dipinti fiamminghi-agli aspetti emotivi del personaggio rappresentato.
Molto interessanti sul piano storico-comparativo sono le opere che anticipano alcuni dei temi caravaggeschi, come ad esempio i luminismi di Lorenzo Lotto, l’attenzione verso la pittura veneta di Battista del Moro, la ritrattistica e l’ambivalenza nelle raffigurazioni di Bartolomeo Passerotti.
Caravaggio, come scrisse Longhi, “non ebbe maestri né allievi”. Tuttavia, anche in assenza di una scuola, la sua opera fu studiata da numerosi artisti italiani e stranieri, ciascuno però con un suo tratto personale. La collezione Longhi ci rimanda per il filone italiano ai tonalismi veneti di Carlo Saraceni in cui si palesa l’attenzione al paesaggio di Elsheimer come nel Mosè ritrovato dalle figlie del faraone, alla Santa Maria Maddalena penitente di Domenico Fetti di ispirazione rubensiana. Accanto a queste la drammaticità nel dipinto del Morazzone, l’Incoronazione di spine, datato 1610, opera che citando Mina Gregori 《s’inserisce in un clima manieristico e tuttavia propenso […] a marcare gli affetti”. A partire dagli anni ’30 del Seicento la situazione artistica romana diviene più complessa e articolata: le opere di carattere pubblico sono per lo più affidate agli artisti di area carraccesca.
Sarà anche grazie al lavoro di Bartolomeo Manfredi che il naturalismo caravaggesco verrà diffuso al di fuori dei confini italiani. Accusato di aver contraffatto le opere del Merisi, in realtà Manfredi trasformò quei dipinti in realistiche “scene di genere” come per i “Bari”, i “Concerti” e “le “Taverne”. Si diffondono così “motivi” caravaggeschi che incontrano il favore degli artisti d’oltralpe, incoraggiati anche dalla forte richiesta di committenze in grado di offrire supporto e assistenza ai nuovi arrivati. La serie degli Apostoli di Jusepe de Ribera e la Negazione di Pietro di Valentin de Boulogne testimoniano l’interesse dell’arte europea per le potenti innovazioni di Caravaggio. Seppure ispirato alla Vocazione di San Matteo del Caravaggio, Valentin de Boulogne nella sua Negazione di Pietro se ne distingue attraverso una sintesi personale. Il dipinto rappresenta la vicenda narrata nei Vangeli in cui l’apostolo Pietro viene additato al soldati dalla fantesca. L’ambiente è quello di una taverna dove si intrattengono le guardie del papa giocando ai dadi (riferimento ai soldati che giocano o a sorte le vesti di Cristo) e alcuni avventori. Sebbene i personaggi formino tre diversi gruppi, Valentin ne opera il collegamento attraverso un raffinato esempio di gestualità. Inoltre al piano di appoggio solitamente rappresentato nelle “scene di taverna” da un tavolo di legno, de Boulogne introduce un elemento dell’arte classica: il sarcofago, riferimento archeologico che affonda nelle radici culturali dell’artista e, nondimeno, auspicio alla convivenza tra i due generi pittorici.
Negli anni Trenta del Seicento la fortuna del caravaggismo a Roma va lentamente declinando per essere soppiantata dal Classicismo degli artisti emiliani. Artisti come Mathias Stom (Stomer) interpretano la poetica del Merisi aggiungendo drammaticità e teatralità alle loro composizioni. Ci troviamo di fronte al confine tra naturalismo e barocco. Con il dipinto Susanna e i vecchioni di Mattia Preti, che Longhi definisce il 《terzo fra i geni pittorici del Seicento》, dopo il Caravaggio e Battistello Caracciolo, gli stilemi caravaggeschi si arricchiscono con un nuovo vocabolario barocco. Conclude la mostra San Sebastiano curato dagli angeli, pala d’altare dipinta da Giacinto Brandi nel 1660 -1670 circa di cui ci resta sconosciuta la destinazione. L’opera raffigura con grande enfasi la scena del soccorso prestato dagli angeli in seguito al martirio di San Sebastiano. Longhi definisce la tela 《una delle opere più perfette del barocco italiano, “sgorgata, lutulenta e pure fluente come le più belle idee del Bernini》.

Bibliografia:
– Catalogo della mostra, Il Tempo di Caravaggio, a cura di Maria Cristina Bandiera, Ed. Marsilio
– Arte nel Tempo, De Vecchi Cerchiati. Vol.3
– Catalogo della mostra allestita nelle Scuderie del Quirinale, 2010, “Caravaggio” a cura di Claudio Strinati, Ed. Skira

“IL TEMPO DI CARAVAGGIO”-MUSEI CAPITOLINI

http://www.museicapitolini.org/it/mostra-evento/il-tempo-di-caravaggio

https://it.wikipedia.org/wiki/Ragazzo_morso_da_un_ramarro#/media/File:Michelangelo_Caravaggio_061.jpg

Nozioni preliminari per capire e interpretare l’esposizione:
1- a Roberto Longhi si deve la “riscoperta” di Caravaggio, iniziata con la tesi di laurea discussa nel 1911-
2- le opere esposte appartengono infatti alla sua collezione-
3- per Longhi Caravaggio è stato il primo pittore dell’età moderna, ma per capire la vera portata di questo giudizio occorrerebbe prima trovare un accordo su che cosa sia l’età moderna nella Storia dell’Arte, il che non è facile…-
4- il dato di fatto oggettivo è che fra ‘500 e ‘600 avviene una rivoluzione nella pittura: Annibale Carracci e Michelangelo Merisi da Caravaggio travolgono gli schemi e i concetti formali del Manierismo (che peraltro sopravvivono per qualche decennio) e diventano i modelli di due tendenze contrapposte, il classicismo e il caravaggismo-
5- l’unica opera di Caravaggio presente nella mostra è il “Ragazzo morso da un ramarro”, risalente ai primi anni del soggiorno romano dell’artista, nella quale si possono evidenziare tre aspetti: la posa scomposta del ragazzo, colto nell’attimo preciso in cui viene morso dal rettile; l’espressione facciale che mostra dolore e sorpresa; l’eccezionale, direi virtuosistica rappresentazione della “natura morta”, con i frutti disposti senza una ricerca di ordine e di armonia, e la brocca che riflette la finestra-
6- le altre opere esposte rappresentano bene il tema generale del caravaggismo con le sue molteplici varianti, dal tenebroso Gherardo delle Notti all’elegante Valentin de Boulogne-
7- nell’ultima sala possiamo ammirare un bellissimo S. Sebastiano curato dagli Angeli di Giacinto Brandi (1670 circa), pienamente barocco, certo, anche se non privo di una riconoscibile “impronta” caravaggesca, ma qui si apre il difficile discorso del rapporto fra Caravaggio e il barocco…

(Salvo diversa indicazione chiaramente specificata, testi e immagini di questo sito sono di Pietro Massolo e quindi sono sotto la protezione della LEGGE SUL DIRITTO D’AUTORE)

SANTA MARIA DEL POPOLO

Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476) e soprattutto a causa della guerra greco-gotica (535-553), che fra le altre cose comporta il taglio degli acquedotti, inizia un periodo oscuro. Roma si restringe e la zona ora occupata da Piazza del Popolo torna ad essere sostanzialmente extraurbana, pur trovandosi all’interno del perimetro delle Mura Aureliane. Dopo i secoli ‘bui’, diciamo così, dell’Alto Medioevo, il primo intervento importante e decisivo nell’area è quello promosso da papa Pasquale II (1099-1118), che fa costruire il nucleo della Chiesa di Santa Maria del Popolo nel 1099, secondo la tradizione nel luogo demoniaco del sepolcro di Nerone, il cui fantasma si aggirava (e forse si aggira ancora…) nella zona. Lo spettro di Nerone è uno dei tanti fantasmi romani “storici”:

https://massolopedia.it/fantasmi-romani/

Inizialmente si tratta, in effetti, di una cappella, costruita come ringraziamento alla Vergine per la conquista di Gerusalemme (1099) con i soldi del popolo romano e questo spiegherebbe il nome. Nel Duecento la cappella viene ingrandita, anche perché Gregorio IX (1227-1241) fa trasportare da S. Giovanni in Laterano una sacra icona mariana del tipo “odigitria” (=che mostra la via) attribuita a S. Luca, ancora oggi visibile sull’altare e nota come Madonna del Popolo. Un recente restauro ha permesso il riconoscimento della firma di Filippo Rusuti, noto esponente della cosiddetta Scuola Romana, attiva fra Due- e Trecento. La vera e propria chiesa, nella sua forma definitiva, viene costruita durante il pontificato di Sisto IV Della Rovere (1471-1484), il cui stemma è infatti ancora visibile sulla facciata. La questione della paternità del progetto è ancora sub judice. La struttura è, comunque, tipicamente rinascimentale, come si può notare dalla semplicità e linearità della facciata, forse di Andrea Bregno. Da notare il campanile quattrocentesco, un tipico esempio dello stile tardogotico lombardo, dovuto al fatto che nel 1472 la chiesa viene affidata agli agostiniani della Congregazione Lombarda. Purtroppo nell’Ottocento il convento agostiniano, nel quale aveva soggiornato Martin Lutero, è stato sacrificato per la ristrutturazione della piazza.

La pianta è a tre navate con 4 cappelle per lato. Al Bramante dobbiamo il coro attuale dei primi del Cinquecento, la cui volta viene affrescata mirabilmente dal Pinturicchio (1508-1510). Nel ‘600, però, la chiesa viene, per così dire, “barocchizzata” dal Bernini, il quale disegna i due altari ai lati del transetto, modifica (ma forse sarebbe meglio dire “completa”) la meravigliosa Cappella Chigi, disegnata da Raffaello per Agostino Chigi nel 1513-1514, e fa inserire le statue di santi in stucco realizzate dai suoi allievi. In questo modo l’austera impronta agostiniana iniziale viene nettamente modificata, anche se comunque l’intervento non è stato in generale giudicato negativo. Roma ci ha fin troppo abituati alle sovrapposizioni di stili. Si può fare un agevole confronto, didatticamente importante, tra la cappella raffaellesca, in cui si rivela lo spirito del Rinascimento nonostante l’intervento berniniano, e la sontuosa Cappella Cybo, che sta proprio di fronte, capolavoro barocco di Carlo Fontana.

Fra le moltissime opere presenti nella basilica non si possono tralasciare le due celeberrime tele di Caravaggio presenti nel transetto sinistro (Cappella Cerasi): la Conversione di S. Paolo e la Crocifissione di S. Pietro. Fra le due opere si trova una bellissima Assunzione di Annibale Carracci, che secondo me può essere molto utile per un confronto tra il classicismo dei Carracci e il crudo naturalismo caravaggesco, che insieme, all’inizio del Seicento, contribuiscono a innovare profondamente la pittura italiana dopo il lungo predominio manierista.

Da non perdere: previo permesso si può accedere alla sagrestia, in cui si trova un fantastico altare marmoreo del 1473 firmato da Andrea Bregno.

Sitografia:

https://massolopedia.it/piazza-del-popolo/

http://www.smariadelpopolo.com/it/la-basilica

https://it.wikipedia.org/wiki/Basilica_di_Santa_Maria_del_Popolo

https://www.arte.go.it/event/filippo-rusuti-e-la-madonna-di-san-luca-in-santa-maria-del-popolo/

Bibliografia:

Fondamentale, come sempre, la Guida Rossa del Touring (io uso l’ed. 2004);

Sono disponibili in chiesa, su richiesta: Carlo Sabatini, Santa Maria del Popolo, ed. Interstampa, e la guida storica in quattro lingue, priva però di indicazioni sull’autore, ed. L’Agostiniana, con una notevole documentazione fotografica.

(Foto di Pietro Massolo)

PIAZZA DEL POPOLO

Roma è piena zeppa di luoghi e cose importanti da vedere, ammirare e capire.
Ovvio.
Però se uno vuole veramente capire la storia della Città Eterna deve studiare: Piazza del Popolo, i Fori Imperiali, l’area tra la Stazione Termini e Piazza Esedra (o della Repubblica) e Piazza Venezia. In queste quattro aree è condensata praticamente tutta la storia di Roma.
Speriamo che siano conservate per sempre e che non accada mai più quello che è successo dopo l’Unità.
Cominciamo con Piazza del Popolo.
Innanzitutto il nome. Nessuno sa con certezza l’origine del nome della chiesa che dà il nome alla piazza.
Prima ipotesi: la chiesa, anzi inizialmente la cappella venne costruita con i soldi del popolo romano.
Seconda ipotesi: un boschetto di pioppi (dal latino ‘populus’) esisteva proprio in corrispondenza della tomba di Nerone ed il luogo di culto sarebbe stato costruito proprio lì per esorcizzare le demoniache presenze legate al ricordo del tiranno che aveva incendiato Roma.
Ma andiamo avanti, tanto non ne veniamo a capo.
È il punto in cui l’antica Via Flaminia entra nella città. Un punto davvero cruciale. Il passaggio per i pellegrini che vengono dal Nord. Lutero infatti passò da qui e fu ospitato nel convento agostiniano annesso alla chiesa di S. Maria del Popolo, demolito nell’Ottocento per allargare la piazza.
Cerchiamo di capire la lunghissima serie di trasformazioni.
L’area in origine non era inclusa nelle mura serviane, quindi era una zona suburbana: campagna, vigneti, ville..
Poi la città cresce e la situazione cambia radicalmente. Diventa un’area urbana o quasi.
Infatti, quella che chiamiamo Porta del Popolo anticamente era detta Porta Flaminia, una delle porte delle Mura Aureliane (costruite dall’omonimo imperatore nel III secolo d. C.), che includevano molte zone non comprese nel perimetro delle mura più antiche.
La Via Flaminia entrando in città cambia nome, divenendo prima Via Lata e poi, dal Quattrocento, Via del Corso (per via delle corse dei cavalli).
Torniamo indietro.
Dopo la caduta dell’Impero inizia un periodo oscuro. Roma si restringe e la zona torna ad essere
sostanzialmente extraurbana, pur trovandosi all’interno del perimetro delle Mura Aureliane.
Dopo i secoli ‘bui’, diciamo così, dell’Alto Medioevo, il primo intervento importante e decisivo nell’area è quello promosso da papa Pasquale II, che fa costruire il primo nucleo della Chiesa di Santa Maria del Popolo nel 1099.
Inizialmente si tratta, in effetti, di una cappella.
La vera e propria chiesa viene costruita durante il pontificato di Sisto IV Della Rovere (1471-1484), il cui stemma è infatti ancora visibile sulla facciata.
La struttura è, in effetti, tipicamente rinascimentale, come si può notare dalla semplicità e linearità della facciata. Nel ‘600, però, la chiesa viene, per così dire, barocchizzata dal Bernini.
Riprenderò presto il discorso sulla storia e sulle caratteristiche di questo meraviglioso luogo di culto, dove tra le altre cose troviamo una cappella progettata da Raffaello e due opere straordinarie di Caravaggio….
Per la storia e la descrizione di S. Maria del Popolo vedi qui:
Ma torniamo alla storia generale della Piazza.
Dal punto di vista urbanistico, un enorme rilievo assunse la creazione, nel corso del XVI secolo, delle due vie laterali rispetto alla centrale Via del Corso: Via di Ripetta e Via del Babuino (prima chiamata Via Paolina). Nasceva così il famoso “Tridente”, un elemento essenziale della rete viaria dell’Urbe, soprattutto per la circolazione e l’orientamento dei pellegrini provenienti dal Nord.
Porta del Popolo, che oggi collega Piazzale Flaminio a Piazza del Popolo, corrisponde all’antica Porta Flaminia. Bisogna dire che alla fine del Medioevo quest’antica porta delle Mura Aureliane risultava pesantemente danneggiata e ormai seminterrata a causa dei detriti portati dal Tevere durante le frequenti inondazioni.
Si arrivò così, pian piano, alla decisione di Pio IV Medici (1559-1565) di rifarla, ovviamente ad un livello più alto. L’incarico venne commissionato inizialmente a Michelangelo, già molto anziano, il quale preferì affidarlo al fiorentino Giovanni Lippi, detto Nanni di Baccio Bigio. Il Lippi s’ispirò all’Arco di Tito e infatti la nuova struttura aveva in origine un solo fornice. L’edificio venne dotato di una merlatura a busti corazzati, rielaborazione di quella michelangiolesca di Porta Pia (vedi: https://massolopedia.it/porta-pia/ ).
In un’incisione di Giuseppe Vasi risalente alla metà del XVIII secolo si vede bene l’aspetto esterno della porta: un solo fornice con due torri quadrangolari ai lati, che avevano sostituito quelle antiche semicircolari. Tale struttura è rimasta inalterata fino al 1879, quando furono demolite le due torri laterali allo scopo di aprire al loro posto due nuovi fornici per migliorare la viabilità in un’area ritenuta nevralgica della nuova Capitale d’Italia. Si noti che le 4 colonne della facciata provengono dalla vecchia Basilica di S. Pietro. Le statue di S. Pietro e di S. Paolo dello scultore Francesco Mochi furono inserite nella facciata nel 1638.
L’obelisco egiziano autentico, detto Obelisco Flaminio, che si trova al centro della piazza, proveniente dal Tempio di Eliopoli e risalente ai faraoni Seti I e Ramesse II (cioè a più di tremila anni fa), era stato trasportato a Roma da Ottaviano Augusto e posto sulla spina del Circo Massimo. Dopo più di 1500 anni fu ritrovato in tre pezzi al tempo di Sisto V (1585-1590), il quale lo fece risistemare ed erigere nella piazza dall’architetto Domenico Fontana nel 1589.
(Continua)
Per approfondire:

(Foto di Pietro Massolo)

ARTEMISIA GENTILESCHI

Artemisia Gentileschi (1593-1653) non è stata soltanto una grande pittrice, pienamente meritevole di un  posto nella Storia dell’Arte. La sua vita costituisce  infatti un esempio  di vero e proprio femminismo ante litteram, che però non deve essere interpretato in senso troppo moderno.

Oggi moltissime donne si dedicano alla pittura, ma alla sua epoca la cosa sembrava alquanto strana ed inquietante. Va anche precisato che in effetti non era il primo caso. Basterebbe citare Sofonisba Anguissola, che era stata apprezzata da Michelangelo ed era divenuta ritrattista della famiglia  reale di Spagna.

Il caso di Artemisia è però più eclatante, anche perché fu protagonista di una vicenda drammatica che le diede grande notorietà. Ebbe infatti il coraggio di accusare di stupro il pittore Agostino Tassi, anche se il suo ruolo effettivo in tutta questa vicenda non è stato ancora chiarito. Non è dato sapere, in sostanza, se l’impulso principale sia partito dal padre, desideroso di difendere l’onore della famiglia, oppure da Artemisia stessa, offesa per le promesse non mantenute dal suo ‘stupratore’, che oltretutto era sposato….

 Figlia d’arte (il padre era il noto ed importante pittore Orazio Gentileschi, formatosi nell’ambito del manierismo, ma poi fortemente influenzato da Caravaggio), Artemisia si dimostrò un talento precoce e poté avere (cosa rarissima  per una  donna) una  formazione artistica presso la bottega romana del padre.

A quell’epoca (siamo nel periodo a cavallo tra ‘500 e ‘600) a Roma si trovavano artisti di prima grandezza, tra cui Michelangelo Merisi da Caravaggio. Il fatto di avere un padre pittore e di vivere a Roma in quel periodo straordinario compensò ampiamente lo svantaggio di essere donna in un mondo totalmente dominato dagli uomini. Lo stesso Caravaggio ebbe sicuramente una notevolissima influenza nella formazione della giovane pittrice.

Nonostante le difficoltà, Artemisia Gentileschi riscosse un grande successo, grazie ad uno stile personale che, partendo dalla fondamentale lezione paterna,  sintetizzava le tendenze principali del suo tempo, nel quadro di una cultura artistica fondamentalmente barocca.

LA PITTURA NELL’EPOCA DI ARTEMISIA GENTILESCHI

Nell’ultimo ventennio del ‘500, a Roma, il manierismo impera e nello stesso tempo si afferma con Paul Bril il paesaggismo.

In generale, la Controriforma impone un concetto di arte intesa in senso pedagogico-devozionale. Tutte le arti hanno il compito di consolidare la Fede attraverso la rappresentazione degli Atti dei Martiri, antichi e moderni, e della Storia Sacra. Questa concezione pedagogica dell’arte trova la sua espressione tipica nella scuola manierista, a lungo bistrattata, ma dotata di una sua notevole modernità ed anche di un’indubitabile varietà, ora ampiamente riconosciute dalla critica. Un tipico esempio di manierismo unito alla devozione lo troviamo negli affreschi di S. Vitale:

https://massolopedia.it/s-vitale/

In questa sorta di “humus” manierista, aderente al dettato controriformista e nello stesso tempo a suo modo originale e persino  “rivoluzionario”, si forma il padre di Artemisia.  

Ma proprio negli ultimi 10-15 anni del secolo XVI si affermano tendenze nuove destinate a trasformare profondamente il panorama artistico. I Carracci fondano a Bologna una nuova scuola basata sulla riscoperta del disegno dal vero che soppianta progressivamente la ‘maniera’. A Roma arriva un lombardo che si chiama Michelangelo Merisi. La sua impostazione ideologica deriva direttamente dal cattolicesimo lombardo, al quale San Carlo Borromeo aveva dato un’impronta indelebile. Caravaggio rappresenta senza veli la dura realtà di un mondo caratterizzato dalla povertà e dal peccato: dopo decenni di manierismo imperante è una vera rivoluzione.

In linea generale, si può quindi dire che tra Cinque e Seicento il mondo della pittura viene sconvolto da un vero e proprio terremoto: il ritorno al naturalismo, sia pure con alcune importanti e decisive differenze tra la scuola bolognese dei Carracci ed il modello di Caravaggio. È significativo che proprio a Roma lavorano per un certo periodo sia Annibale Carracci, sia Caravaggio. Una coincidenza certo non casuale e di enorme peso storico.

Il naturalismo della scuola bolognese è più classicamente orientato e darà origine, fra l’altro, alla pittura raffinata di Guido Reni e del Domenichino.

Invece Caravaggio inventa un naturalismo veramente inusitato, aspramente realista e tragico, basato sulla rappresentazione degli umili e sul contrasto violento fra la luce e l’ombra, riflesso della sua visione della vita.

Ma all’inizio del secolo XVII arriva  a Roma anche Pieter Paul Rubens, uno dei ‘padri’ del barocco! Roma è quindi, nell’epoca della prima formazione di Artemisia Gentileschi, una fucina d’arte pazzesca.

APPROFONDIMENTO STORICO-ARTISTICO

La vicenda del processo per stupro ed il fatto di essere donna in un mondo artistico totalmente dominato dagli uomini hanno fatto di Artemisia Gentileschi (1593-1652 o 53) una vera icona del femminismo.

Ma quale fu la sua autentica ‘poetica’ e quale posizione ha avuto effettivamente nella storia dell’arte?

Per poter dare un giudizio obiettivo bisogna evitare di farsi condizionare dall’eccezionalità della sua biografia.

Dobbiamo innanzitutto dire che visse in un’epoca veramente straordinaria per quanto riguarda la pittura. Artemisia vide il culmine e il lento tramonto del manierismo e fu testimone, certo non passiva, non solo della rivoluzione naturalistica compiuta da Caravaggio e dalla scuola dei Carracci, ma anche dell’affermazione del linguaggio barocco con Rubens e Pietro da Cortona!

Secondo Giulio Carlo Argan (STORIA DELL’ARTE ITALIANA, VOL. 3, SANSONI), la sua nota stilistica fondamentale consiste nel contrasto, ‘tipicamente barocco’, fra la bellezza e la morte. Ma se il sangue e la morte sono chiaramente segnati dall’impronta inconfondibile caravaggesca, prevale in Artemisia il ‘compiacimento letterario’ e manca l’angoscia autentica del Merisi.

Devo riconoscere che la lettura di Argan mi ha permesso di risolvere, almeno in parte, i miei dubbi e di collocare la grande pittrice in modo più preciso: Artemisia si forma, come il padre Orazio, nell’ambiente romano dominato dal Manierismo, ma viene molto presto fortemente influenzata dal naturalismo e dalla violenza tragica di Caravaggio per poi confluire, a modo suo, nel grande e variegato fiume del barocco.

Ma come dicevo, qualche dubbio rimane….

ALTRE OPINIONI SU ARTEMISIA: BAROCCA O CARAVAGGESCA?

Abbiamo visto che secondo Argan la peculiarità di Artemisia Gentileschi consiste nel contrasto ‘tipicamente barocco’ fra la bellezza da un lato ed il sangue e la morte dall’altro. Argan riconosce l’influsso caravaggesco, ma in senso puramente stilistico-formale perché manca nella pittrice romana il dramma umano autentico e profondo.

Ovviamente ci sono state e ci saranno altre interpretazioni.

Rispetto al padre Orazio, che fu il suo primo maestro e dal quale riprese molti temi, Artemisia appare nettamente più ‘caravaggesca’ nel senso del realismo e del contrasto fra luce ed ombra.

In linea generale, viene quasi sempre messa in rilievo dalla critica l’impronta di Caravaggio, ma a mio parere, sulla scorta della lezione di Argan, non si deve esagerare in tal senso.

In verità, una parte dei critici tende ad enfatizzare il peso della vicenda dello ‘stupro’ e del processo e quindi a vedere nella pittura di Artemisia il riflesso del suo personale dramma umano. Di questo passo, però, si rischia di arrivare ad una specie di interpretazione ‘eroica’ e quasi preromantica della sua pittura: espressione artistica di una titanica lotta contro lo strapotere maschile!

A prescindere dal dramma esistenziale reale, su cui si è molto discusso e si discute ancora, secondo me la collocazione giusta della sua personale ‘poetica’ è all’interno della corrente storico-culturale barocca.

Il punto cruciale è valutare quanto sia stata forte l’influenza di Caravaggio sulla pittura ed in generale sull’arte barocca, ma questo è un altro discorso.

L’ARTE DI ARTEMISIA E LA VICENDA DELLO STUPRO

Artemisia Gentileschi (o Lomi, il cognome del padre Orazio, mentre Gentileschi è il cognome della madre del padre) non è molto facile da collocare in una ‘scuola’ precisa.

In linea generale, possiamo dire che alcuni la considerano ‘caravaggesca’, altri più nettamente ‘barocca’.

Il problema, secondo me, nasce dal fatto che la sua formazione avvenne in un’epoca caratterizzata da una grande varietà di correnti. Inoltre, bisognerebbe anche osservare che quella barocca è una scuola le cui radici sono piuttosto varie e complesse: Correggio, il Manierismo, Rubens, lo stesso Caravaggio…..

Accolgo pienamente il già citato giudizio di Argan: Artemisia rappresenta il contrasto ‘tipicamente barocco’ fra la bellezza e la morte; inoltre, manca nella pittrice romana l’autentica angoscia esistenziale del grande maestro lombardo.

Ribadisco anche che in generale i critici concordano su un punto: sia Orazio Gentileschi, sia la figlia furono fortemente influenzati da Caravaggio, ma in Artemisia il realismo è nettamente più aspro e più drammatico il contrasto chiaroscurale.

Il legame con il padre è comunque molto evidente, se non altro per la ripresa dei temi.

Un altro punto da mettere in rilievo è il peso reale della scabrosa vicenda dello ‘stupro’ nella sua opera. La vicenda non è stata del tutto chiarita, ma comunque Artemisia dimostrò un notevole coraggio continuando a sostenere l’accusa contro il suo stupratore, il pittore amico del padre Agostino Tassi, anche sotto tortura.

Non credo che sia corretto, comunque, interpretare tutta la sua opera come il riflesso di un bisogno di rivalsa e addirittura di vendetta, anche se in alcuni casi può sembrare evidente (si veda Giuditta che taglia la testa di Oloferne).

Sta di fatto che la protagonista assoluta delle sue tele è la donna: dalla lasciva Danae all’eroica Giuditta, dalla sensuale Cleopatra alla Maddalena penitente, le sue tele sono un completo ‘campionario’ delle varie e contraddittorie sfaccettature dello stereotipo femminile.

Atemisia fu indubbiamente una grande pittrice, capace di virtuosismi tecnici e d’introspezione psicologica. Per ottenere successo, seppe adattarsi, ma in modo non certo superficiale, alle richieste ed ai bisogni dei diversi ambienti in cui si trovò ad operare.

Per approfondire:

https://it.wikipedia.org/wiki/Processo_ad_Agostino_Tassi_per_lo_stupro_di_Artemisia_Gentileschi
http://www.softrevolutionzine.org/2014/il-processo-per-stupro-nel-600-il-caso-di-artemisia-gentileschi/
http://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/artemisi.htm
http://www.artemisiagentileschi.net/stupro.html
https://it.m.wikipedia.org/wiki/Artemisia_Gentileschi

Si veda anche:

Giulio Carlo Argan, Storia dell’Arte Italiana, vol. 3, Sansoni, p. 290