TAT-THEMATIC APPERCEPTION TEST

Nell’ambito dei test “proiettivi” della personalità, sicuramente il TAT è in assoluto uno dei più importanti. Dopo il Rorschach è il più usato al mondo per indagare emozioni, atteggiamenti e processi cognitivi. Si basa sulla presentazione al soggetto di figure ambigue, cioè non dotate di un senso definito, su cui devono essere costruite storie. Venne sviluppato negli anni ’30 da Murray e Morgan. ” The rationale behind the technique is that people tend to interpret ambiguous situations in accordance with their own past experiences and current motivations, which may be conscious or unconscious. Murray reasoned that by asking people to tell a story about a picture, their defenses to the examiner would be lowered as they would not realize the sensitive personal information they were divulging by creating the story. …

The subject is asked to tell as dramatic a story as they can for each picture presented, including the following:

  • what has led up to the event shown
  • what is happening at the moment
  • what the characters are feeling and thinking
  • what the outcome of the story was….. Story Design measures the examinee’s ability to identify and formulate a problem situation.….
  • Story Orientation assesses the examinee’s level of personal control, emotional distress, confidence and motivation.
  • Story Solutions assesses how impulsive the examinee is. In addition to evaluating the types of problem solutions that are provided, the number of problem solutions that examinees provide for each of the TAT cards is summed.
  • Story Resolution provides information on the examinee’s ability to formulate problem solutions that maximize both short and long-term goals…. Like other projective techniques, the TAT has been criticized on the basis of poor psychometric properties (see above). Criticisms include that the TAT is unscientific because it cannot be proved to be valid (that it actually measures what it claims to measure), or reliable (that it gives consistent results over time). “

https://en.wikipedia.org/wiki/Thematic_apperception_test

L’INTERPRETATIONE

“Ci sono due approcci di base per interpretare le risposte al TAT, chiamati rispettivamente nomotetico e idiografico. APPROCCIO NOMOTETICO L’interpretazione nomotetica si riferisce alla pratica di stabilire norme per le risposte da soggetti in specifici gruppi di età, sesso, razza o livello di istruzione e quindi misurare le risposte di un dato soggetto rispetto a tali norme. APPROCCIO IDIOGRAFICO “L’interpretazione idiografica si riferisce alla valutazione delle caratteristiche uniche della visione del mondo e delle relazioni del soggetto. La maggior parte degli psicologi classificherebbe la TAT come più adatta all’interpretazione idiografica che nomotetica. ” CARATTERISTICHE DELLE RISPOSTE: CONTENUTI, TONO EMOTIVO, COMPORTAMENTO DEL NARRATORE “Nell’interpretare le risposte al TAT, gli esaminatori focalizzano tipicamente la loro attenzione su una delle tre aree: il contenuto delle storie che il soggetto racconta; la sensazione o il tono delle storie; o i comportamenti del soggetto oltre alle risposte. Questi comportamenti possono includere commenti verbali (ad esempio, commenti sul sentirsi stressati dalla situazione o non essere un bravo narratore) così come azioni o segni non verbali (arrossire, balbettare, agitarsi sulla sedia, difficoltà a stabilire un contatto visivo con l’esaminatore, ecc .) Il contenuto della storia di solito rivela gli atteggiamenti, le fantasie, i desideri, i conflitti interiori e la visione del mondo esterno del soggetto. La struttura della storia in genere riflette i sentimenti del soggetto, le ipotesi sul mondo e un atteggiamento di base di ottimismo o pessimismo. ”

http://www.minddisorders.com/Py-Z/Thematic-Apperception-Test.html#ixzz6Qlcezsms

SORRISO SOCIALE NEL BAMBINO

All’inizio il sorriso del bambino è ENDOGENO,
INVOLONTARIO, NON COMUNICATIVO:
Spitz condusse studi sull’evoluzione del sorriso nei bambini molto piccoli ed arrivò alla conclusione che nei primi due mesi di vita il sorriso è involontario ed endogeno, legato ad una sensazione di benessere. Si può manifestare durante il sonno oppure dopo una soddisfacente poppata. Il sorriso endogeno può essere considerato un riflesso involontario e quindi non è comunicativo. Fra il secondo e il terzo mese di vita compare il sorriso esogeno, provocato da stimoli esterni. Non si tratta ancora, però, di una funzione comunicativa, ma piuttosto di una forma d’imitazione.
Dal TERZO MESE compare il SORRISO SOCIALE VOLONTARIO, COMUNICATIVO, SELETTIVO
Dal terzo mese di vita compare il vero e proprio “sorriso sociale”, volontario, comunicativo e selettivo, nel senso che non è più indiscriminato. Il neonato ha imparato a discernere le figure familiari dagli estranei. Con la comparsa del sorriso sociale inizia realmente la vita di relazione cosciente.
Vedi il testo di Maria Grazia Sirni in:
https://www.google.com/amp/s/educazioneadaltocontatto.wordpress.com/2018/03/16/tre-diversi-tipi-di-sorrisi-nei-neonati/amp/

PICCOLO DIZIONARIO DI PSICOLOGIA

ANALE (FASE) In psicoanalisi, la seconda fase dello sviluppo psicosessuale, caratterizzata dall’organizzazione della libido sotto il primato della zona anale: le gratificazioni, le frustrazioni e i conflitti sono legati ai processi fisiologici di espulsione e di ritenzione delle feci e al loro valore simbolico.

ATTACCAMENTO Si tratta del legame “che unisce il bambino a chi si prende cura di lui”, ma naturalmente non riguarda soltanto il rapporto madre-bambino. La teoria dell’attaccamento, formulata alla fine degli anni ’60, è legata soprattutto alle opere di J. Bowlby . L’attaccamento viene definito fondamentalmente come un comportamento che ha come scopo quello di mantenere la vicinanza e l’interdipendenza reciproche. L’attaccamento viene considerato come una motivazione ereditaria istintiva e primaria e non derivata e secondaria, la cui funzione adattativa consiste fondamentalmente nella necessità della protezione della prole dai predatori. Il comportamento di attaccamento vero e proprio inizia nell’uomo generalmente fra i 4 e i 12 mesi, “quando il bambino risponde in modo differenziato alla madre e tende a mantenere il contatto con lei.” http://www.treccani.it/enciclopedia/attaccamento
Per saperne di più: https://www.stateofmind.it/tag/attaccamento/

Nel corso dei primi anni di vita, i bambini costruiscono “modelli operativi interni” basati sulle esperienze relazionali precoci. Questi modelli operativi sono piuttosto persistenti e influenzano le relazioni e le percezioni sociali anche nell’adullto. La teoria dell’attaccamento di John Bowlby è stata supportata dai dati empirici soprattutto grazie alle osserzazioni di Mary Ainsworth, la quale ha individuato tre fondamentali modelli di attaccamento. Il paradigma sperimentale della studiosa si chiama Strange Situation Procedure e consiste nella separazione del bambino dalla madre, seguita dopo un certo tempo (ovviamente limitato) dal ricongiungimento. Le reazioni dei bambini al ricongiungimento erano fondamentalmente di tre tipi: atteggiamento nettamente positivo, ambivalenza e indifferenza o ostilità. Studi successivi hanno permesso di considerare un quarto pattern che non rientra nelle tipologie precedenti.

Esiste una relazione fra le modalità di attaccamento del bambino alla madre e la sua capacità da adulto di parlare con un interlocutore in modo sincero, chiaro, completo e pertinente, cioè secondo i criteri stabiliti dal filosofo del linguaggio Paul Grice per rispettare il “principio di cooperazione”.
Infatti, la cosiddetta “ADULT ATTACHMENT INTERVIEW, un’intervista semistrutturata che si  usa per far emergere nell’adulto la modalità di attaccamento alla propria madre, si basa proprio sui criteri di Grice.

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Paul_Grice

https://www.counselling-directory.org.uk/memberarticles/four-patterns-of-adult-discourse-observed-in-the-adult-attachment-interview

NEED FOR ACHIEVEMENT Può essere tradotto come bisogno di risultati e di successo in senso lato. Si tratta del bisogno di ottenere risultati significativi nei più vari campi di attività e di dimostrare le proprie capacità. L’espressione fu usata per la prima volta da Henry Murray in associato a una serie di azioni. Questi includono: “sforzi intensi, prolungati e ripetuti per realizzare qualcosa di difficile. Lavorare con unicità di intenti verso un obiettivo alto e lontano. Avere la determinazione per vincere”. Il concetto di N-Ach fu successivamente reso popolare dallo psicologo David McClelland. [2] Nel 1961 McClelland pubblicò The Achieving Society, che articolava il suo modello di motivazione umana. McClelland ha sostenuto che tre esigenze dominanti – per il successo, per il potere e per l’affiliazione – sono alla base della motivazione umana. McClelland credeva che l’importanza relativa di ogni esigenza varia tra gli individui e le culture. Sostenendo che i test di assunzione comunemente usati che utilizzano valutazioni del QI e della personalità erano scarsi predittori di competenza, McClelland ha proposto che le aziende dovrebbero basare le decisioni di assunzione su comprovate competenze in campi pertinenti, piuttosto che su punteggi dei test standardizzati. Iconoclastiche ai loro tempi, le idee di McClelland sono diventate una pratica standard in molte aziende.


NOZIONI ESSENZIALI DI PSICOLOGIA DELLO SVILUPPO

Esiste un’età propriamente detta evolutiva, ma tutta la vita di un individuo, dalla nascita alla morte, deve essere considerata come un processo continuo di sviluppo:

http://www.treccani.it/enciclopedia/psicologia-dello-sviluppo_%28Enciclopedia-Italiana%29/

” La psicologia dello sviluppo studia l’evoluzione e lo sviluppo del comportamento umano, dal concepimento alla morte. Si differenzia dalla psicologia dell’età evolutiva, la quale prende in considerazione solo lo sviluppo del bambino.” https://it.wikipedia.org/wiki/Psicologia_dello_sviluppo

Vedi anche: https://bolzano.unicusano.it/studiare-a-bolzano/psicologia-dello-sviluppo-e-delleducazione/

Nella loro essenza, la psicologia dello sviluppo e quella dell’età evolutiva studiano i cambiamenti a livello cognitivo e comportamentale che avvengono nel corso del tempo. Esse naturalmente si preoccupano di studiare come, perché e quando avvengono tali cambiamenti. A questo proposito, una questione molto dibattuta riguarda il peso relativo dell’ambiente e della costituzione ereditaria dell’individuo nel processo di sviluppo.

Lo sviluppo dell’intelligenza secondo J. PIAGET

Il punto essenziale della teoria piagetiana è la differenza qualitativa tra uno stadio di sviluppo e l’altro. Tra il bambino e l’aduto non c’è una differenza quantitativa in termini di nozioni apprese con l’esperienza e a scuola. Si tratta di un modo diverso di pensare. Inoltre, la successione degli stadi di sviluppo è sempre la stessa, anche se i passaggi possono essere rallentati oppure accelerati da fattori esterni.

Piaget dimostrò innanzitutto l’esistenza di una differenza qualitativa tra le modalità di pensiero del bambino e quelle dell’adulto e, successivamente, che il concetto di capacità cognitiva, e quindi di intelligenza, è strettamente legato alla capacità di adattamento all’ambiente sociale e fisico. Ciò che spinge la persona a formare strutture mentali sempre più complesse e organizzate lungo lo sviluppo cognitivo è il fattore d’equilibrio, «una proprietà intrinseca e costitutiva della vita organica e mentale». Lo sviluppo ha quindi un’origine individuale, e fattori esterni come l’ambiente e le interazioni sociali possono favorire o no lo sviluppo, ma non ne sono la causa (al contrario, ad esempio, di ciò che pensa Vygotskij).” https://it.wikipedia.org/wiki/Jean_Piaget

Caratteri essenziali del pensiero infantile

Animismo ed egocentrismo- Il bambino tende ad attribuire un’anima anche agli oggetti inanimati e ai vari aspetti della natura e del cosmo e spiega gli eventi naturali in funzione dei suoi desideri e dei suoi desideri. La sua comprensione del mondo è legata strettamente al suo punto di vista.

Assimilazione ed accomodamento- L’adattamento delle strutture mentali avviene sulla base di due meccanismi fondamantali. Con l’assimilazione le nuove esperienze vengono integrate in schemi già formati. Per esempio, se un bambino di pochi mesi vede un oggetto nuovo lo può afferrare e portare alla bocca alla bocca. In tal modo applica uno schema già formato a un oggetto ignoto assimilandolo nello schema. Se però l’oggetto nuovo ha caratteristiche diverse e nuove rispetto a quelli conosciuti, deve adattare lo schema, cioè deve modificare lo schema della presa. (vedi Emilio Lastrucci – Enciclopedia dei ragazzi (2006) http://www.treccani.it/enciclopedia/jean-piaget_%28Enciclopedia-dei-ragazzi%29/ )

Gli stadi dello sviluppo intellettuale

Un’altra nozione essenziale della teoria piagetiana è quella degli stadi di sviluppo dell’intelligenza, concepita come un processo naturale e universale. Gli stadi sono 4. Il primo è quello senso-motorio e va dalla nascita ai 2 anni circa. Il neonato utilizza prima i riflessi innati e poi gli schemi motori elementari e in tal modo acquisisce le prime abilità. Fra i 12 e i 18 viene acquisita la permanenza degli oggetti anche al di fuori del suo campo visivo. Dopo i 18 mesi prevede gli effetti delle proprie azioni e inoltre sviluppa la capacità simbolica attraverso il linguaggio e il gioco.

Nel secondo stadio, detto preoperatorio, dai 2 ai 7 anni, il bambino comincia a ragionare in base al criterio dell’analogia e quindi estende le caratteristiche riscontrate in una determinata esperienza in base alla somiglianza. Se un cane lo morde o l’aggredisce, ritiene tutti i cani aggressivi e pericolosi.

Il terzo stadio, detto delle operazioni concrete, va dai 7 ai 12 anni e quindi corrisponde al periodo della scuola elementare. In questo stadio è in grado di compiere le prime operazioni logiche. Arriva a a comprendere la conservazione della quantità: per esempio, due recipienti di forma diversa contengono la stessa quantità d’acqua.

Il quarto e ultimo stadio è quello delle operazioni formali, nel senso che verso i 12 anni il bambino è in grado di fare ragionamenti astratti, usando, per esempio, la proprietà transitiva. http://www.treccani.it/enciclopedia/jean-piaget_%28Enciclopedia-dei-ragazzi%29/

Lo sviluppo a stadi è, o dovrebbe, essere alla base del sistema educativo formale. Ad ogni stadio deve, o dovrebbe, corrispondere un determinato tipo di didattica, sia in termini dì metodo, sia di contenuti. Sta di fatto, comunque, che la psicologia piagetiana dello sviluppo è stata per molto tempo la base della formazione pedagogica degli insegnanti elementari.

Le fasi psicosessuali di Freud

Dal punto di vista feudiano, gli stadi di sviluppo sono strettamente legati alla libido e agli oggetti libidici. Si tratta di un modello di sviluppo ritenuto universale, anche se può essere modificato da fattori socio-culturali, come è stato dimostrato da alcuni antropologi culturali relativamente al complesso di Edipo.

Nella psicologia freudiana, lo sviluppo psicosessuale è un elemento centrale della teoria psicoanalitica della pulsione sessuale. Secondo Freud, la personalità si sviluppa attraverso una serie di fasi in ognuna delle quali il piacere si focalizza su una determinata zona erogena. Una zona erogena è un’area del corpo particolarmente sensibile alla stimolazione. In base alle zone erogene si distinguono cinque stadi psicosessuali: orale, anale, fallico, latente e genitale. La zona erogena funge da fonte di piacere. La frustrazione in una fase particolare può portare alla fissazione. Secondo Freud, lafrustrazione in uno qualsiasi degli stadi dello sviluppo psicosessuale produce un’ansia che persiste nell’età adulta come una forma di nevrosi.

https://en.wikipedia.org/wiki/Psychosexual_development Vedi anche: http://www.treccani.it/enciclopedia/processo-di-sviluppo-in-psicoanalisi_%28Dizionario-di-Medicina%29/

La sequenza completa è composta dunque da 5 fasi: orale, anale, fallica, di latenza e genitale. Le prime tre sono quelle più importanti e delicate dal punto di vista della maturazione della sessualità.

Vedi anche: http://www.treccani.it/enciclopedia/processo-di-sviluppo-in-psicoanalisi_%28Dizionario-di-Medicina%29/

Il modello kleiniano

La teoria di Melanie Klein accentua l’importanza e le conseguenze dell’innata aggressività del bambino, messa in rilievo dall’allievo di S. Freud Karl Abraham:

All’inizio il bambino concepisce soltanto “oggetti parziali”. La prima “posizione” (non fase, per rimarcare la reversibilità), la più primitiva, è caratterizzata da oggetti parziali e proiezioni massicce di angosce di persecuzione. Nella fase successiva, detta depressiva, il bambino è capace di rapportarsi con la persona intera, è in grado di provare sensi di colpa per i danni causati dalla sua aggressività e desidera rimediare (riparazione). http://www.treccani.it/enciclopedia/processo-di-sviluppo-in-psicoanalisi_%28Dizionario-di-Medicina%29/

Da notare che M. Klein usa il termine posizione al posto di fase per sottolineare la reversibilità del processo di sviluppo, nel senso che le due posizioni di base possono ripresentarsi e coesistere anche nella vita dell’adulto. Rispetto al modello freudiano, risulta evidente l’importanza predominante dell’aggressività.

La teoria dello sviluppo di M. Mahler

Il modello di Margaret Mahler – pediatra e psicoanalista – si basa sull’osservazione del rapporto madre-bambino e sull’esperienza clinica della studiosa con pazienti psicotici. Da uno stato iniziale di autismo fisiologico si passa alla simbiosi con la madre; si arriva gradualmente, in un contesto sano, nel periodo compreso fra i 4 e i 36 mesi, alla fase di separazione-individuazione, durante la quale il bambino impara a parlare e a camminare, delimitando anche la propria individualità separata. La modalità simbiotica non si estingue mai in modo definitivo e può riemergere in circostanze sia normali (nel rapporto con i propri figli), sia patologiche (regressione psicotica). http://www.treccani.it/enciclopedia/processo-di-sviluppo-in-psicoanalisi_%28Dizionario-di-Medicina%29/

Le fasi psico-sociali di Eric Ericson

Risulta evidente la differenza profonda tra fase psicosessuale e fase psicosociale: nel primo caso, l’accento è posto sulla libido e sulle zone erogene, mentre nel caso di Ericson è predominante l’interazione sociale. In questo modello, ogni fase di sviluppo è caratterizzata da un conflitto fra due tendenze opposte e il superamento positivo di tale conflitto è il presupposto che rende possibile il passaggio allo stadio successivo: lo sviluppo della personalità adulta e sana viene quindi inteso come una serie di passaggi cruciali, ognuno dei quali pone l’individuo di fronte a determinati problemi. Ogni fase psico-sociale è una sorta di prova che il soggetto deve superare, ovviamente con l’aiuto determinante delle figure adulte di riferimento.

TAVOLA SINOTTICA DELLE CORRISPONDENZE TRA PERIODI DELLA VITA, FASI PSICOSESSUALI DI FREUD E FASI PSICOSOCIALI DI ERIKSON

PeriodoFase psicosessualeFase psicosociale
 Infanzia 0-1 anno Fase orale fiducia-sfiducia
 Prima infanzia 1-3 anni Fase anale autonomia-vergogna e dubbio
 Età genitale 3-6 anni Fase fallica iniziativa-senso di colpa
 Età scolare 6-12 anni Fase di latenza industriosità-inferiorità

Con la piena maturità sessuale in senso psico-fisico, che in Freud corrisponde alla “genitalità”, la corrispondenza puntuale fra le fasi psicosessuali e le fasi psicosociali si esaurisce. Si può dire, per essere più precisi, che la genitalità di Freud coincide come inizio con l’adolescenza e quindi presuppone la pubertà, ma sostanzialmente coincide con l’età adulta. La sequenza delle fasi di Erikson, intese come prove da superare, continua per tutta la vita e procede come segue:

Adolescenza 12-20 anni (pubertà, inizio della genitalità), identità e contestazione/diffusione di identità;

Prima età adulta 20-40 anni (genitalità pienamente matura), intimità e solidarietà/isolamento;

Seconda età adulta 40-65 anni, generatività/stagnazione e auto-assorbimento;

Vecchiaia 65 in poi, integrità dell’Io/disperazione.

Sitografia:

https://lamenteemeravigliosa.it/le-fasi-dello-sviluppo-psicosociale/ http://psiche.altervista.org/erikson-e-la-psicologia-del-ciclo-di-vita/ https://it.wikipedia.org/wiki/Erik_Erikson https://it.wikipedia.org/wiki/Fasi_dello_sviluppo_psicosessuale_secondo_Freud

APPRENDIMENTO

“Nella ricerca sia psicologica sia etologica, acquisizione persistente di modificazioni del comportamento, dal semplice condizionamento di riflessi primari fino a forme complesse di organizzazione delle informazioni, determinate dall’esperienza del soggetto, piuttosto che da un controllo genetico.” http://www.treccani.it/enciclopedia/apprendimento

” In generale si può definire l’ apprendimento come una modificazione comportamentale che consegue a, o viene indotta da, un’interazione con l’ambiente ed è il risultato di esperienze che conducono allo stabilirsi di nuove configurazioni di risposta agli stimoli esterni.
https://www.stateofmind.it/tag/apprendimento/

” In psicologia cognitiva l’apprendimento consiste nell’acquisizione o nella modifica di conoscenze, comportamenti, abilità, valori o preferenze e può riguardare la sintesi di diversi tipi di informazione.” https://it.wikipedia.org/wiki/Apprendimento

In base alle definizioni, risulta evidente che l’apprendimento è innanzitutto una “modificazione” che può riguardare sia il comportamento in senso stretto, sia le conoscenze del soggetto in generale. L’apprendimento costituisce una necessità vitale per gli animali detti “superiori”, ma è stato riscontrato persino in organismi unicellulari. In ogni caso, nei mammiferi e soprattutto nella specie umana l’apprendimento è estremamente sviluppato. Nell’uomo la superiore capacità di apprendimento è legata al maggiore sviluppo delle aree associative cerebrali.

Le teorie comportamentiste dell’apprendimento si basano sul principio dell’associazione di uno stimolo ad una risposta. Il condizionamento “classico” di Pavlov si basa sull’associazione tra uno stimolo incondizionato, come il cibo, ad uno stimolo condizionato, che può essere un campanello. Dopo una serie di associazioni ripetute, la presentazione dello stimolo condizionato produce da sola la stessa risposta (salivazione) prodotta dallo stimolo incondizionato. La risposta allo stimolo incondizionato è innata, la risposta allo stimolo condizionato è appresa. In questo caso la risposta è fisiologica, ma si possono produrre risposte anche di altro genere, per esempio una reazione di ansia con lo stesso principio metodologico di base. Sempre con il metodo del condizionamento, si può sviluppare sperimentalmente nell’animale la cosiddetta “impotenza appresa”: l’animale viene posto in una condizione in cui apprende ad associare uno stimolo (per esempio un suono) ad un evento doloroso (per esempio una scossa elettrica), ma gli viene impedita la possibilità di evitare l’evento doloroso. L’animale diventa passivo anche rispetto a successive situazioni simili. Ovviamente l’impotenza appresa fornisce utili indicazioni psicopedagogiche ed anche psicoterapeutiche. In generale, si è visto che i risultati della terapia cognitivo-comportamentale, basata sui principi dell’apprendimento, sono piuttosto buoni soprattutto nei disturbi ansioso-depressivi. Questo significa che, a prescindere dalla disposizione ereditaria (la cui importanza è stata ampiamente dimostrata), anche l’apprendimento esercita una certa influenza sullo sviluppo di sindromi depressive e ansiose. E proprio sull’apprendimento si basa fondamentalmente la suddetta terapia cognitivo-comportamentale.


I MECCANISMI DI DIFESA

Partiamo dalla definizione di Cramer:
“Con il termine meccanismo di difesa ci riferiamo a un’operazione mentale che avviene per lo più in modo inconsapevole, la cui funzione è di proteggere l’individuo dal provare eccessiva ansia. Secondo la teoria psicoanalitica classica, tale ansia si manifesterebbe nel caso in cui l’individuo diventasse conscio di pensieri, impulsi o desideri inaccettabili. In una moderna concezione delle difese, una funzione ulteriore è la protezione del Sé – dell’autostima e, in casi estremi, dell’integrazione del Sé” (Cramer, 1998)”
http://www00.unibg.it/dati/corsi/40018/69947-Meccanismi%20di%20difesa.pdf
Si tratta di un’operazione (per lo più) inconsapevole; serve a proteggere dall’ansia; secondo la teoria freudiana classica, l’ansia scatta nel momento in cui si diventa consci di pensieri, impulsi o desideri inaccettabili; secondo una concezione più moderna, serve a proteggere anche l’autostima.
Definizione di Wikipedia:
“Un meccanismo di difesa, nella teoria psicoanalitica, è una funzione propria dell’Io attraverso la quale questo si protegge da eccessive richieste libidiche o da esperienze di pulsioni troppo intense che non è in grado di fronteggiare direttamente.”
https://it.wikipedia.org/wiki/Meccanismo_di_difesa
Si tratta di una funzione dell’Io; protegge da eccessive richieste libidiche o da pulsioni troppo intense: anche in questa definizione il mondo esterno è assente. Tutto nasce e si sviluppa all’interno della psiche.
Però la stessa Wikipedia amplia poco dopo il discorso ed emerge l’ambiente:
“Per estensione in psicologia si intendono tali tutti i meccanismi psichici, consci e inconsci, messi in atto dall’individuo per proteggersi da situazioni ambientali, esistenziali e relazionali dolorose o potenzialmente pericolose.”
https://it.wikipedia.org/wiki/Meccanismo_di_difesa
Quindi la difesa si attiva in seguito a minacce sia interne, sia esterne:
“metodo mobilitato dall’Io in risposta al proprio segnale di pericolo, cioè l’ansia, quale protezione da minacce interne ed esterne.”
https://www.psicologionline.net/dizionario-glossario-psicologia/dizionario-psicologia-m
Ciò su cui le varie definizioni concordano è innanzitutto il fatto che il meccanismo difesa è una funzione propria dell’Io.
Ma che cos’è l’Io?
“Sigmund Freud, iniziatore del movimento psicoanalitico, considerava l’Io (in tedesco Ich) come un’istanza psichica, vale a dire una struttura organizzatrice che ha il compito di mediare pulsioni ed esigenze sociali, rappresentate da altre due istanze in conflitto fra loro (l’Es e il Super Io).”
https://it.wikipedia.org/wiki/Io_(psicologia)
“Nell’ambito della psicologia psicoanalitica, il termine Io designa le parti organizzate dell’apparato psichico, in contrasto con l’Es non organizzato.
La nozione di Io si specifica, tuttavia, in Freud, a partire dalla svolta rappresentata dall’apparato concettuale espresso nella seconda topica. Da questo punto di vistà, l’Io è un’istanza in parte conscia, in parte inconscia, in una relazione di dipendenza dall’Es, in quanto serbatorio energetico-pulsionale, dagli imperativi del Super-Io e dalle esigenze della realtà.”
https://www.psiconline.it/le-parole-della-psicologia/io.html
Insomma: l’Io, in parte inconscio, ha la funzione essenziale di mediare fra esigenze contrastanti poste dalle pulsioni interne, dal Super-io e dalla realtà. La mediazione non è certo facile, anzi, e da questa difficoltà si sviluppa il meccanismo di difesa.
Una cosa mi pare evidente: il meccanismo psichico difensivo non risolve il problema alla radice, sia esso derivante dall’interno o dall’esterno. La volpe della favola di Esopo che svaluta l’uva che non riesce a prendere non soddisfa la sua voglia. Sul piano strettamente pratico non ottiene nulla. Però un risultato l’ottiene: diminuisce il valore psichico del suo desiderio svalutando l’oggetto, il che non è poco. Naturalmente lo stratagemma funziona a condizione che la volpe non ne sia consapevole (molto difficile, dato il soggetto).

I meccanismi di difesa non possono essere considerati, in generale, come un fenomeno “patologico”. La questione è abbastanza complessa, tenendo anche conto del fatto che la differenza fra normalità e patologia è molto spesso una questione di grado. In alcuni casi, tali meccanismi non soltanto non sono patologici, ma sono anche altamente adattativi. Un esempio è la sublimazione:

In psicoanalisi, la sublimazione è un meccanismo che sposta una pulsione sessuale o aggressiva verso una meta non sessuale o non aggressiva. Questo consente una valorizzazione a livello sociale delle pulsioni sessuali o aggressive nell’ambito della ricerca, delle professioni o dell’attività artistica, fino alla vita religiosa e spirituale.” (https://it.wikipedia.org/wiki/Sublimazione_(psicologia)

” In psicanalisi, termine introdotto da S. Freud (ted. Sublimierung) per indicare la trasformazione di impulsi istintuali primitivi, soprattutto sessuali, a livelli superiori e socialmente accettabili, e comunque di carattere non sessuale, come processo prevalentemente inconscio operante nella produzione artistica e creativa e nella sfera religiosa.” http://www.treccani.it/vocabolario/sublimazione/

DA IPPOCRATE AI “BIG FIVE”-BREVE STORIA DELLA PERSONOLOGIA


Nel mondo greco-romano la teoria fondamentale della personalità, elaborata dalla scuola ippocratica e ripresa da Galeno, si basava sui 4 temperamenti, corrispondenti alla prevalenza di uno dei 4 umori fondamentali, collegati ai 4 elementi: flemmatico (flegma-acqua), melanconico (bile nera-terra), sanguigno (sangue-aria) e collerico (bile gialla-fuoco).
Oltre alla teoria degli “umori”, il mondo antico ha concepito l’esistenza di una notevole quantità di tipologie caratteriali, così individuate dal discepolo di Aristotele Teofrasto in base a trenta caratteristiche o tendenze morali:
I. La simulazione
II. L’adulazione
III. Il ciarlare
IV. La zotichezza
V. La cerimoniosità
VI. La dissennatezza
VII. La loquacità
VIII. Il raccontar fandonie
IX. La spudoratezza
X. La spilorceria
XI. La scurrilità
XII. L’inopportunità
XIII. Lo strafare
XIV. La storditaggine
XV. La villania
XVI. La superstizione
XVII. La scontentezza
XVIII. La diffidenza
XIX. La repellenza
XX. La sgradevolezza
XXI. La vanagloria
XXII. La tirchieria
XXIII. La millanteria
XXIV. La superbia
XXV. La codardia
XXVI. Il conservatorismo
XXVII. La goliardia tardiva
XXVIII. La maldicenza
XXIX. La propensione per i furfanti
XXX. L’avarizia
Bisogna subito notare che i caratteri di Teofrasto sono tutti legati a tendenze morali negative, derivanti dalle riflessioni di Platone e di Aristotele sulla virtù, riscontrabili nella complessa vita sociale di Atene nel IV secolo a. C. e come tali utilizzati anche da drammaturghi come Menandro.
https://it.wikipedia.org/wiki/Teofrasto#I_Caratteri
Tornando allo schema ippocratico-galenico, ben più importante e fecondo sul piano epistemologico, risulta evidente la connessione strettissima fra soma e psiche, fra caratteristiche fisiologiche dell’organismo e caratteristiche psicologiche.
Questo legame stretto fra soma e psiche si ritrova nelle teorie “costituzionali” della personalità sviluppate nel Novecento da Kretschmer e Sheldon. La teoria di Ivan Pavlov -basata sull’osservazione delle risposte dei cani al processo di condizionamento- rappresenta in un certo senso una novità perché collega tutti i processi psichici a tre dimensioni di base del sistema nervoso e non dell’organismo nel suo complesso: forza, equilibrio e mobilità. Sulla base di queste tre disposizioni di base possono manifestarsi 4 tipi: forte-squilibrato, forte-equilibrato, forte-equilibrato-mobile, forte-equilibrato-inerte e debole, corrispondenti ai temperamenti ippocratici: collerico, sanguigno, flemmatico e melanconico. Gli allievi di Pavlov hanno poi esteso all’uomo la teoria del maestro, influenzando soprattutto la psicologia russa.
La tipologia junghiana si basa, invece, sulla disposizione dicotomica fondamentale estroverso/introverso e sulla combinazione tra la disposizione fondamentale e una delle 4 “funzioni psichiche”: pensiero, sentimento, sensazione e intuizione. Le prime due sono “razionali”, le seconde “irrazionali”. In tal modo possono venire a formarsi 8 tipi psicologici.
Il limite principale di tutte queste teorie, pur diverse, della personalità, da Ippocrate a Jung, consiste nel fatto che ciascun individuo viene fatto rientrare in una determinata e fissa tipologia specifica.
L’evidente ed estrema variabilità individuale ha posto l’esigenza di spostare l’analisi dai “tipi” ai “tratti”. I tratti, secondo la definizione oggi prevalente, sono modalità costanti di atteggiamenti, pensieri e comportamenti che, pur essendo universali, sono presenti in misura diversa in ciascun individuo.
Raymond Cattell, un pioniere, insieme a Gordon Allport, della teoria dei tratti, individuò ben 16 fattori dicotomici fondamentali della personalità:

A = Espansività
B = Ragionamento
C = Stabilità emozionale
E = Dominanza

F = Vivacità
G = Coscienziosità
H = Audacia sociale
I = Sensibilità
L = Vigilanza
M = Astrattezza

N = Prudenza
O = Apprensività
Q1 = Apertura al cambiamento
Q2 = Fiducia in sé
Q3 = Perfezionismo
Q4 = Tensione

https://www.giuntipsy.it/catalogo/test/16pf-5

I risultati di Allport e di Cattell si basavano su uno studio molto accurato del lessico (“approccio lessicografico”), nel senso che si cercavano nel lessico tutti i termini che definiscono la personalità, che poi venivano sottoposti ad un’analisi statistica di tipo fattoriale. L’analisi fattoriale consiste, in sostanza, nella ricerca di una struttura di base latente rispetto alla massa dei dati raccolti, partendo dalle correlazioni fra i dati stessi. Questo tipo di analisi ha avuto una grandissima importanza anche nello studio dell’intelligenza perché ha consentito di inviduarne le caratteristiche generali attraverso lo studio delle correlazioni tra i singoli “item” nei test.
Questo metodo fu usato da Cattell per arrivare ai suoi 16 fattori. Egli chiese ad un gruppo di soggetti di valutare persone conosciute sulla base di insiemi di termini (“clusters”), già elaborati da Allport, e poi sottopose i risultati all’analisi fattoriale.
Successivamente, anche Eysenck ha utilizzato l’analisi fattoriale per elaborare la sua teoria della personalità, che riprende l’antica teoria umorale.
Gli ulteriori studi fattoriali hanno portato alla diminuzione dei super-fattori, che oggi sono cinque, gli ormai famosi “big five”.
A questo punto si pone una domanda: si può ridurre la personalità di ciascun individuo a cinque soli fattori fondamentali? Più precisamente, si può dire che tutte le definizioni linguistiche della personalità, sedimentate nel corso dei secoli, si concentrano attorno a cinque dimensioni dicotomiche, come per esempio estroversione/introversione?
A quanto pare, sì. Tanti sono i modi che la lingua ci offre per definire il modo di essere, di pensare e di comportarsi di una persona. Tutte le persone nuove che conosciamo suscitano in noi una serie di reazioni che possono essere negative o positive a seconda dei casi. Una prima, immediata impressione ci porta a classificarle in base al criterio simpatia/antipatia e molto presto le definizioni si allargano e si precisano sempre di più. Ma per quanto le definizioni possano essere varie, a livello linguistico si possono individuare, mediante l’analisi fattoriale, 5 fondamentali definizioni dicotomiche o bipolari che utilizziamo tutti per valutare una persona. Così è nato il modello detto dei “big five”.
“I punti di partenza di questa teoria sono:
L’approccio fattoriale proposto da Hans Eysenck, che identifica le dimensioni caratterizzanti le differenze individuali attraverso analisi statistiche di tipo fattoriale.
La teoria della sedimentazione linguistica elaborata da Raymond Cattell: questi studi hanno considerato il vocabolario della lingua quotidiana come un serbatoio di descrittori delle differenze individuali.”
https://it.wikipedia.org/wiki/Big_Five_(psicologia)

Una serie di studi di tipo fattoriale, basati su materiale lessicografico in più lingue, hanno in effetti confermato in modo costante l’esistenza di cinque grandi fattori della personalità, noti da tempo con l’espressione “big five”. I risultati si sono dimostrati affidabili e replicabili e questo spiega la grande diffusione di questo modello.
“Da queste linee teoriche di partenza, McCrae e Costa postulano 5 grandi dimensioni (Big Five) di personalità: l’estroversione-introversione, gradevolezza-sgradevolezza, coscienziosità-negligenza, nevroticismo-stabilità emotiva, apertura mentale-chiusura mentale (Goldberg, 1993). Tali dimensioni sono state individuate a partire da studi psicolessicali, secondo i quali l’uomo ha codificato in forma verbale tutte le esperienze significative per la comunità comprese, in questo caso, parole che si riferiscono alle differenze individuali: le 5 dimensioni elencate, quindi, corrisponderebbero alle macro-categorie più usate, nel linguaggio, per descrivere le diversità tra individui.”
https://it.wikipedia.org/wiki/Big_Five_(psicologia)
Così Luccio e Rovera descrivono i big five:
“I sorgenza (loquace, socievole, avventuroso, aperto);
II gradevolezza (bonario, cooperativo, gentile);
III coscienziosità (responsabile, scrupoloso, perseverante, ordinato);
IV stabilità (calmo, tranquillo, disteso);
V cultura (intellettuale, artistico, fantasioso, elegante).”
(Riccardo Luccio e Gian Giacomo Rovera, in http://www.treccani.it/enciclopedia/personalita_(Enciclopedia-delle-scienze-sociali)/).
Non mancano certo i dubbi e le difficoltà: “Ci si è spesso chiesti se effettivamente siano sufficienti questi cinque fattori per descrivere la personalità, se essi non siano troppo generali per essere utilizzabili e se non lascino fuori aspetti rilevanti della personalità che non vengono però colti nell’interazione sociale. Di fatto, come nota Goldberg, i big five consentono di rispondere alle cinque domande che ogni persona si pone quando deve interagire con un’altra, cercando di prevederne il comportamento e di regolarsi di conseguenza: è un individuo dominante o sottomesso? È gradevole? Posso fare affidamento su di lui? È prevedibile o è ‘pazzo’? È acuto o sciocco?” (ib.)
http://www.treccani.it/enciclopedia/personalita_(Enciclopedia-delle-scienze-sociali)/

I super-fattori 1 (estroversione/introversione) e 4 (stabilità/nevroticismo) coincidono con le due dimensioni del modello di Eysenck, basato sulle proprietà costituzionali del sistema nervoso in termini di eccitazione/inibizione e rappresentabili su assi ortogonali. I due assi ortogonali producono 4 quadranti, che corrispondono ai 4 temperamenti fondamentali della tradizione ippocratico-galenica: flemmatico, melanconico, sanguigno e collerico.
In questo modo l’introverso stabile è flemmatico, l’introverso nevrotico è melanconico, l’estroverso stabile è sanguigno e l’estroverso instabile è collerico.

INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELL’ISTERIA

PREMESSA GENERALE

L’isteria ha una lunghissima storia “nosografica” che parte addirittura dall’antico Egitto. Essa ha anche avuto un ruolo fondamentale nella nascita della psicoanalisi.
Ma oggi, fondamentalmente, più che un disturbo mentale specifico, essa viene considerata come un complesso di manifestazioni sia somatiche, quali convulsioni, dispnea, anestesie, paralisi, sia psichiche, come la dissociazione.
L’isteria non ha più uno statuto di disturbo mentale a sé stante, essendo la sua sintomatologia suddivisa in due classi di disturbi clinici distinti:
i disturbi somatomorfi, intesi come sintomi fisici privi di base organica e quindi di natura psicogena;
i disturbi dissociativi, che consistono in una perdita della funzione integrativa della coscienza, della memoria e della percezione.
Questa scelta nosologica fatta dall’American Psychiatric Association nel “Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali” (DSM) ha suscitato alcuni dissensi, ma è comunque quella oggi prevalente.
Collegato all’isteria viene considerato anche il disturbo istrionico di personalità, caratterizzato da “un persistente e pervasivo quadro di emotività eccessiva e di ricerca di attenzione”, da sempre ritenute tipiche manifestazioni isteriche. Bisogna precisare che rispetto ai disturbi clinici veri e propri, in generale i disturbi di personalità devono essere considerati come un’esasperazione dei cosiddetti “tratti di personalià”, intesi come “modi costanti di percepire, rapportarsi e pensare nei confronti dell’ambiente e di se stessi”.
Tralasciando il discorso della “malattia” e del “disturbo mentale” in senso oggettivo, sul piano soggettivo il disturbo di personalità (asse 2 del DSM) si distingue dal disturbo clinico (asse 1) anche perché di solito tale tipo di disturbo è “egosintonico”: il soggetto lo considera come un suo peculiare modo di essere o stile di vita e non come una patologia. Per evitare equivoci, l’espressione “egosintonico” non va collegata in modo semplicistico all’idea di “benessere”. Si tratta più precisamente dell’atteggiamento del soggetto nei confronti dei propri sintomi:

In psicologia si dice egosintonico un qualsiasi comportamento, sentimento o idea che sia in armonia con i bisogni e desideri dell’Io, o coerente con l’immagine di sé del soggetto. I sintomi delle patologie psichiatriche possono essere egosintonici oppure non esserlo. In genere i sintomi dei disturbi di personalità sono egosintonici (la persona si sente in sintonia coi sintomi, quindi non prova disagio, e sono ritenuti da essa coerenti col resto della personalità). L’opposto del termine è egodistonico. “Egosintonico” è stato introdotto come termine nel 1914 da Freud in Introduzione al narcisismo, ed è rimasto una parte importante del suo apparato concettuale” https://it.wikipedia.org/wiki/Egosintonico

Per capirlo potrebbe bastare l’esempio del disturbo paranoide di personalità: il soggetto non è minimamente consapevole dell’assurdità delle sue paranoie perchè se lo fosse non sarebbe veramente “disturbato”. Semmai, il paranoide fa star male gli altri.
Nel caso dei disturbi clinici, invece, il soggetto generalmente sta male e ne è pienamente consapevole, al punto che cerca di uscire in un modo o nell’altro dalla sua situazione. Tale è il caso, ad esempio, di chi ha paura dell’aereo e quindi non può prenderlo neanche quando gli servirebbe (la fobia è classificata tra i disturbi d’ansia, nell’ambito dell’asse 1, “disturbi clinici”), ma per questo si sente menomato e tende a cercare, almeno a parole, una soluzione del problema.
Tornando al disturbo istrionico di personalità, risulta evidente che si tratta di un modo costante e pervasivo di pensare e di agire sicuramente disadattivo, ma comunque, nonostante le conseguenze negative che comporta, non spinge il soggetto a cambiare. Anzi, l’istrionico tende a considerare se stesso come una persona molto speciale e quindi sotto certi aspetti persino superiore alla media.
Lo stesso discorso non si può fare, ovviamente, nel caso dei disturbi clinici (tra i quali rientrano i disturbi somatoformi e quelli dissociativi), che comportano un vissuto soggettivo di disagio evidente e a volte grave.

Il disturbo isterico, che come tale non è più considerato nel DSM, e il disturbo istrionico costituscono due gradi distinti dello stesso quadro psicopatologico generale ed infatti presentano molti punti in comune: per esempio la labilità emotiva e il bisogno di attenzione. Tuttavia il disturbo istrionico viene considerato più gave. Secondo la classificazione di Kernberg, l’isterico rientra nell’organizzazione di personalità nevrotica, l’istrionico in quella borderline (Lingiardi, p. 261). Sempre secondo Kernberg, il nevrotico si caratterizza per la capacità di tollerare l’angoscia e per un intatto esame di realtà e un buon grado di adattamento (ib. p. 263), mentre nello psicotico l’esame di realtà e l’adattamento sono gravemente compromessi. L’area borderline costituisce, come fa capire il termine stesso, una sorta di via di mezzo, un’area di confine tra i due livelli nevrotico e psicotico.
Si veda.
https://it.wikipedia.org/wiki/Disturbo_di_personalit%C3%A0
Bibliografia:
V. Lingiardi, I disturbi di personalità, ed. il Saggiatore, 2001


ETIMOLOGIA
La parola “isteria”, che denota una particolare “nevrosi” detta anche “nevrosi isterica”, deriva dal greco ὑστέρα (hystera), sostantivo femminile della prima declinazione che significa utero. Questo sostantivo è chiaramente collegato all’aggettivo ὕστερος (hysteros) che secondo l’imprescindibile vocabolario di Lorenzo Rocci può significare, fra le altre cose, “inferiore”. Quindi la parola ὑστέρα (hystera) è legata alla posizione dell’utero nel corpo femminile. Altri l’interpretano nel senso di una parte protuberante rispetto alla linea del corpo e quindi la collegano al ventre sporgente della donna. Comunque, questa “malattia” è stata per tradizione considerata tipicamente femminile, anche se in effetti risulta ampiamente dimostrato che non è esclusiva delle donne.
In latino, però, la parola “uterus” è di genere maschile e pare strettamente collegata al greco ὕδερος (hyderos), sostantivo maschile che significa idropisia, rigonfiamento od accumulo di liquido. Altri (cfr. Zingarelli) la collegano ad “uter, utri”, sostantivo maschile che significa otre e quindi contenitore
Per l’etimologia:
https://en.wiktionary.org/wiki/%E1%BD%91%CF%83%CF%84%CE%AD%CF%81%CE%B1
Bibliografia.
L.Rocci, Vocabolario greco-italiano
Castigioni-Mariotti, Il -Vocabolario della lingua latina

https://massolopedia.it/curriculum-vitae-2/

METODO SPERIMENTALE DETTO “DOPPIO CIECO”

Definizione 1:
“Un esperimento in cieco o in doppio cieco è in termini figurativi un modo per definire un esperimento scientifico dove viene impedito ad alcune delle persone coinvolte di conoscere informazioni che potrebbero portare a effetti di aspettativa consci o inconsci, così da invalidarne i risultati. Il doppio cieco (triplo, eccetera) si può prospettare quando vi siano coinvolti, oltre agli sperimentatori, altri soggetti coscienti, tipicamente esseri umani.
Uno studio teso ad evitare risultati potenzialmente aleatori, condotto in doppio cieco è ad esempio uno studio scientifico prospettico teso a valutare le effettive azioni di un dato farmaco o di una terapia in genere non fornendo ad entrambi i protagonisti dello studio, sperimentatore e soggetto, alcune informazioni fondamentali[2] (nello specifico definito studio aleatorizzato in doppio cieco), o dove si chieda ai consumatori di confrontare la qualità di diverse marche di un prodotto, ove l’identità del prodotto sia nascosta ai consumatori e ai ricercatori di mercato.
La particolarità di questo sistema di valutazione sta quindi nel fatto che, nel campo clinico, né il paziente né il medico conoscono la natura del farmaco effettivamente somministrato.[2] Si differenzia quindi dallo studio “in cieco”, dove solo il paziente è all’oscuro del trattamento cui è sottoposto, e dallo studio in triplo cieco, dove anche lo statistico che elabora i dati non può associare un gruppo a un dato farmaco.”
https://it.wikipedia.org/wiki/Doppio_cieco

Definizione 2:
“La procedura del “cieco semplice”, tuttavia, si è dimostrata insufficiente, poiché i risultati possono essere falsati dalla psiche degli stessi sperimentatori. Infatti, questi ultimi, influenzati dalle proprie aspettative, possono involontariamente assumere comportamenti che possono condizionare le reazioni del soggetto, invalidando così l’esperimento. Se ad esempio il medico sperimentatore sa di somministrare il farmaco piuttosto che il placebo, può involontariamente suggestionare il paziente. Analogamente, se lo sperimentatore che studia il rabdomante conosce anticipatamente la posizione dei corsi d’acqua può inavvertitamente fornirgli utili suggerimenti. Per questo motivo, al fine di ottenere risultati attendibili, è necessario che neppure gli sperimentatori conoscano certe informazioni. Nel caso della sperimentazione clinica, quindi, neppure i medici devono conoscere la natura della terapia somministrata e, nel caso del rabdomante, neppure lo sperimentatore deve conoscere la posizione dei corsi d’acqua sotterranei. In questi casi la procedura viene chiamata “doppio cieco” (double-blind control procedure), poiché sia i soggetti esaminati che gli sperimentatori ignorano informazioni importanti che potrebbero influenzare pesantemente i risultati.
La procedura in doppio cieco si è rivelata quindi l’unica strada percorribile per valutare correttamente i risultati di un esperimento in psicologia, parapsicologia e medicina.”
https://www.cicap.org/n/articolo.php?id=100414

In estrema sintesi: per evitare che determinate informazioni possano influenzare il risultato dell’esperimento, i soggetti coinvolti nello studio, sia gli sperimentatori che i soggetti esaminati, sono tenuti all’oscuro di alcuni dati ritenuti importanti. Naturalmente si parte dal presupposto che proprio quelle determinate informazioni possano incidere sul risultato. Per esempio non viene detto che il farmaco somministrato è in realtà un placebo. infatti è ben noto l’effetto placebo: chi assume un farmaco è di solito portato ad attribuirgli una certa efficacia a priori, per il solo fatto che viene considerato comunemente efficace, e questa convinzione può influire sull’effetto vissuto sul piano soggettivo, indipendentemente dalla reale ed oggettiva efficacia del farmaco.
In psicologia le applicazioni del metodo del “doppio cieco” sono moltissime, praticamente infinite.
A questo proposito, è importante ricordare il cosiddetto “effetto Rosenthal”:
“L’effetto aspettativa, noto anche come effetto Rosenthal, è l’effetto di distorsione dei risultati di un esperimento dovuto all’aspettativa che il ricercatore o i soggetti sperimentali hanno in merito ai risultati stessi. È conosciuto soprattutto nel campo della ricerca medica e nelle scienze sociali, ma può verificarsi in tutte le situazioni sperimentali in cui il fattore umano gioca un ruolo determinante.

L’effetto aspettativa è stato descritto dallo psicologo sociale americano Robert Rosenthal[1][2], che ha ampiamente studiato come le convinzioni degli sperimentatori e dei soggetti sperimentali possano influenzare la realtà e dare origine a una “profezia che si autoavvera”.
https://it.wikipedia.org/wiki/Effetto_aspettativa

LA “REGOLA FONDAMENTALE” DI FREUD

La “regola fondamentale” stabilisce, più o meno, che il paziente deve dire tutto quello che gli passa per la mente durante la seduta.
Leggiamo l’Enciclopedia della Psicoanalisi di Laplanche-Pontalis (1981, p. 495):
“l’analizzato è tenuto a dire ciò che pensa e prova senza scegliere né omettere nulla di ciò che gli viene in mente, anche se ciò gli sembra sgradevole da comunicare, ridicolo, privo di interesse o fuori proposito.”
Vedi anche:
https://it.wikipedia.org/wiki/Attenzione_fluttuante
http://www.psicoanalisi-freudiana.com/
https://www.studenti.it/associazioni_inconscio.html
http://www.lapsicoanalisi.it/psicoanalisi/index.php/che-cose-la-psicoanalisi.html

Bibliografia:

Enciclopedia della Psicoanalisi di Laplanche-Pontalis