Il tratto distintivo di Coccioli è un sorprendente e originale concetto di sintesi.
Perfettamente aderente ai suoi tempi, utilizza la macchina fotografica al massimo delle possibilità che tale strumento offre, attraverso rielaborazioni complesse e raffinate la usa come un pennello restituendo una riscrittura del visibile composta da colori e forme astratte e informali tipici di un quadro. Ciò che provoca una virata emotiva e, addirittura, lascia spiazzati, però, è il fatto di avvertire il punto esatto in cui si incontrano tutti gli opposti, passato e presente, interiorità ed esteriorità, amore e morte, gioia e malinconia, sogno e realtà… Là, nel “luogo” dell’incontro, per chi guarda, ci sono tutte le componenti delle quali nessuno è completamente privo. Le figure evanescenti, nei loro movimenti cristallizzati, ci ricordano che tutto è vacuità, ma nello stesso tempo ci mostrano la loro intimità. Le figure collegate a momenti di grande tragedia ci dicono che non bisogna dimenticare, ma anche che una dose di malvagità è in ogni essere umano.
L’arte del passato ci sovrasta e ci guarda benevola, ma anche guardinga, forse ci fa vergognare di non esserne degni custodi. Luci e lucori ci conducono là dove sogno e realtà, reale e irreale catturano la nostra essenza.
Attraverso immagini apparentemente affastellate, disposte con un virtuosismo per nulla statico, racconta la contemporaneità dando origine ad un dialogo aperto che permette libere incursioni nel mondo onirico.
Non ci da risposte Coccioli, ci lancia nei meandri del cervello e nei grovigli del cuore, in una direzione nella quale non c’è inversione di marcia, ciò che ci è stato disvelato non è più edulcorato, questo sguardo interiore richiede una conclusione che, necessariamente, diventa soggettiva.
L’importante è la consapevolezza e l’assunzione di responsabilità, bisogna accettare questa proposta di indagine, seguire la direzione dei sogni per poter vivere momenti edificanti, ieratici, e raggiungere, finalmente, “la città sognata”.
Le sue fotografie sono dei “deja vu” perché quel “già visto” è dentro di noi, siamo noi. (Mariangela Mutti)