La realtà duplicabile
La grazia e l’inquietudine, ovvero il sogno della bellezza e l’insidia del turbamento, l’armonia e la melanconia, la vitalità della leggiadria e il peso, l’oppressione dello sfinimento e della morte. Di fronte all’incanto di un papavero impregnato di colori e umori esuberanti e vitali, il disincanto di una natura smorta e come esaurita in una lacustre tristezza.
Pietro è un fecondatore di immagini che conferisce senso ad una certa ambigua e inconciliabile distanza fra l’apparenza e la sostanza. Crea una zona d’ombra, tra significante e significato, che però accelera la percezione costringendo lo “sguardo” ad una sorta di escursione straordinaria che dissipa la realtà in un quid non visibile e assolutamente fuori dal contesto narrato. Voglio dire che duplica la realtà in una zona franca che permette la riflessione sull’essere dell’oggetto nella sua natura migratoria, trasportabile, anche rispetto al concetto spaziale, su un piano traslato, quello di una fotografia dove è possibile sostare e contemplare il mondo.
La sua opera è mentale e concreta. Concreta la decostruzione in frammenti e la fatica di sminuzzare e isolare il particolare. Mentale è l’assemblaggio di una struttura capace di penetrare un mistero e fare ordine in una bufera del sentimento in grado di fissare , per esempio, un paesaggio crepuscolare e depurarlo della sua aurea lugubre, penetrando il mistero della morte e riscattarlo nel duplicato della tranquillità, del silenzio e del riposo. Oppure ribaltare la beata indifferenza di un fiore immobile in un laboratorio di libera creatività dove esplode, con semplicità e naturalezza, l’aspetto ludico dell’intera esistenza. La vetrina della realtà, insomma, che si offre ai passanti col suo catalogo di frammenti ed epifanie, e con tutto il principio delle sue antinomie: assenza, mancanza e vuoto ma anche presenza, potenza e desiderio.
Del resto guardiamo le foto. Nei suoi boschi già il crepuscolo è l’immagine di un ciclo che finisce, di un istante sospeso in uno spazio e in un tempo di ricominciamento. Una alchimia che trasforma la stessa sostanza passiva.
I suoi fiori, poi, che cosa sono se non un elisir, una fioritura e un ritorno al centro? All’unità primordiale della vita, come quello di uno scatto fotografico, unico e solo? Ecco il mistero della fotografia di Pietro. Un persuasivo non-luogo dove il fenomeno è metafora e a sua volta copia di un contesto autonomo capace di rinnovarsi ma anche di farsi luogo, rifugio, in cui anche la solitudine acquista valore, sebbene cercata o ricercata in una natura troppo apertamente dichiarata.
(Gianfranco Labrosciano – Centro Studi Promozione e Ricerca dell’Arte Contemporanea)
(Fotografie di Pietro Pannucci)